lunedì 21 ottobre 2013

giovedì 4 luglio 2013

ULTIMO NUMERO ATTUALITA' LACANIANA




INDICE




EDITORIALE
Rosamaria Salvatore*


In un film recente, Un gelido inverno, una diciassettenne, due fratellini e una madre folle, da lei accuditi in una sorda povertà, sono investiti dalla violenza della comunità che li circonda.
Il gelido inverno è immagine efficace di quel deserto di parola, di quell’indebolimento del registro simbolico a causa del quale, come afferma nel suo penetrante testo Miquel Bassols, “l’infanzia, la follia e la femminilità non sono sol- tanto i tre soggetti che hanno incarnato tradizionalmente e in società diverse le figure di maggiore debolezza e necessità di protezione. Essi sono fondamentalmente il luogo di una parola rifiutata, rimossa nel senso più radicale del termine”, divenendo luogo prediletto dell’atto violento. E su tale sfondo di assenza di parola, o ancor peggio di una parola modulata nel registro di un universale che detta protocolli rigidi e fissi uguali per tutti, la particolarità di La/donna, del suo essere su un bordo senza limite, ovvero nel non essere del tutto definibile nella dimensione fallica, quindi eccezione (come sottolineato da Alide Tassinari), favorisce l’affiorare violento di ripetuti passaggi all’atto, attraverso i quali, vanamente, il maschile tenta di sopprimere, di annullare, di cancellare il reale fuori senso, i resti inassimilabili ed eterogenei non integrabili nella propria immagine narcisistica.
Si deve al pensiero di Lacan, come notato in più testi, alla sua insistenza sulla dissimmetria irriducibile tra uomo e donna, lo spostamento del discorso da una presunta assenza e mancanza del femminile, responsabile di una distanza da un Super Io normativo (come sottolineato dall’illuminante testo di Paola Francesconi) o da un binarismo ormai desueto (problema su cui torna il saggio di Chiara Mangiarotti), a una diversa posta in gioco. Ovvero, quella di ricono- scere una posizione del femminile non ancorabile solo alle proprie origini fisi- che e biologiche, la cui forza si alimenta proprio a partire da una mancanza da cui attingere per produrre un’invenzione soggettiva.
L’enigma del femminile, di una diversità non componibile in un tutto uni- forme, ha da sempre caratterizzato la lotta tra uomo e donna (si pensi al nume- ro rilevante di streghe, sante, religiose, che nel corso dei secoli sono state bru- ciate al rogo, dilapidate o segregate). E il corpo delle donne è stato senza sosta profanato, anche se il regime di spettacolarizzazione mediatica nel quale ora è esibito ce ne fa percepire maggiormente il portato di violenza e di povertà simbolica a cui è costretto. Su questo tema torna il lavoro di Chiara Mangiarotti, a mio parere, concepito anche a partire dallo straordinario saggio di Eric Laurent sul sintomo e sul corpo.
Eppure la persistenza e la cruda insensatezza con cui tali fatti si succedono, senza che adeguate politiche di prevenzione e norme giuridiche intacchino con- nivenze (su cui insiste il testo di Chiara Cretella) ci pongono interrogativi forti. Non solo il non arrestarsi di soprusi e ferocia indica un godimento senza argi- ni, al cuore del quale la donna è sempre stata rappresentata come connivente in una accezione masochistica (si veda a tal proposito il saggio di Brandalise e Macola), ma tali realtà brutali possono essere lette tenendo conto di un muta- mento che ha investito la posizione femminile. Da oggetto del desiderio del- l’Altro, forse la questione si sposta su un atto di parola di cui la donna oggi più che mai si fa portatrice.
Se lo scientismo e il discorso universitario, sempre più attestati sulla quanti- ficazione numerica, trattano la follia e l’infanzia quali categorie universali su cui riversare protocolli preformati (si vedano anche i chiari ed esemplari testi di Ansermet e di Di Ciaccia), per la donna sembra presentarsi la necessità sempre più viva di un dire e di un agire non assoggettati a modelli. Come osserva Dominique Laurent la letteratura e il teatro, per Lacan, hanno da sempre testi- moniato un’analisi impietosa della civiltà contemporanea: Una stanza tutta per sé di Virginia Wolf evoca il silenzio a cui le donne sono state costrette e non ulti- mo il teatro di Samuel Beckett ci fa cogliere la presenza “di una parola scanda- losa, fuori senso, vuota, sempre più singolare fino al silenzio”. Allora la parola in qualità di “segno” (Lacan), la parola dell’amore, la parola poetica (riportata nel toccante testo di Giuliana Grando) sono tutte declinazioni del desiderio diretto a mutare la scacchiera di una realtà impoverita dall’indebolimento del registro simbolico.
Anche il discorso politico può quindi spostare l’orizzonte. Le parole di Laura Boldrini nel giorno del suo insediamento alla Presidenza della Camera dei Deputati mi sembra traccino la strada che ci consente, dopo averlo attraversato, di vincere Un gelido inverno, al di là di qualsiasi Fantasma della libertà (suggestivo titolo dell’originale testo di Matteo Bonazzi).
Ma in un’epoca in cui solo “il godimento esige di essere rispettato” e “l’og- getto è al comando” (D. Laurent) anche il corpo del bambino è, come sostiene Alberto Turolla, costruito su immagine e illusione della tecnica. La parola sim- bolica non fa più segno: nella scuola si assiste quotidianamente al riprodursi di un ventaglio di acronimi attraverso cui gli alunni vengono definiti, sigle volte a cancellare il valore del nome, del significante “in virtù dei quali”, scrive Turolla, “il soggetto non è più possibile rappresentarlo, perciò non si pone”. Nella sezio- ne del volume Il bambino en souffrance, ricca di interventi redatti a partire dal Forum sul bambino e la scienza (Bologna, 2013), il rapporto tra pedagogia, bambino e scienza, mostra nodi complessi e problematici: la psicoanalisi non si deve sottrarre ad un ascolto che colga la particolarità e singolarità della soffe- renza, senza che essa sia riassorbita in protocolli categoriali (Maria Bolgiani). E se, come sostenuto da Freud, citato da più autori, esistono professioni votate a psicoanalizzare, educare e governare “il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo”, cionondimeno la psicoanalisi non cade, al pari della scienza, nell’in- ganno di scambiare il piano comunicativo della lingua con “quella che Lacan chiama «pulsione invocante»”(come accade al dottor Itard che tenta di insegna- re il linguaggio ad un ragazzo cresciuto senza presenza umana per otto anni in una foresta). Il bellissimo saggio di Alessandro Russo, nel quale vengono ripor- tate varie fasi del fallimento di Jean Itard in relazione al “ragazzo selvaggio” è emblematico di una questione più ampia, “là dove il bambino”, scrive l’autore, “anche se prende le sembianze di un «oggetto di scienza», diventa un problema pedagogico piuttosto come un «sintomo», o meglio diventa la prova di un’ano- malia costitutiva dell’essere parlante”. Il testo si conclude con un quesito fon- damentale, appello all’assunzione della propria posizione soggettiva: “come può, in qualsiasi esperienza educativa, uno che è nella posizione del maestro non essere esclusivamente installato nel «discorso del padrone?»”.
Certamente non ricorrendo “all’anonimato della competenza”, come ci ricorda Paola Francesconi. E anche la cura verso un bambino, pur ponendolo alla mercé del desiderio della madre è, al contempo, necessaria perché lui possa sentirsi desiderato e riesca a “forgiare il proprio di desiderio”. Eppure oggi, come notato dall’autrice, “l’allargamento e l’enfatizzazione della cura anonima, scientifica, ha portato a trascurare” nella costruzione di un soggetto l’iscrizione simbolica, ovvero “come egli entra nel consorzio umano, nel discorso, nel lega- me, con quale desiderio singolare e particolare”.
Ancora più problematica appare la crisi del soggetto indotta dalla presenza delle biotecnologie perinatali e dei loro sviluppi contemporanei, ci suggerisce François Ansermet. E la posizione più giusta per la psicoanalisi non consiste nel rivendicare una contrapposizione alla scienza, quanto piuttosto nel partire pro- prio dalle nuove frontiere del reale da esse provocate. “La scommessa”, osserva Ansermet sulla scia di Miller, “è piuttosto arrivare ad arrangiarsi con il reale messo in gioco e con il difetto di struttura del simbolico che lo rivela”.
I casi clinici e le testimonianze di passe all’interno del volume, uno per uno, danno valore alla forza con cui ogni singolo, per dirla con le parole di Ansermet, si serve dell’impasse, “per estrarne una soluzione, passare dall’impasse all’in- venzione”.

* Rosamaria Salvatore, Docente di Storia e Critica del Cinema, Università di Padova.

domenica 14 aprile 2013